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Per Aspera Ad Veritatem n.11
Da Schengen ad Amsterdam (passando per Badolato). La politica migratoria italiana nel quadro europeo

Fabio EVANGELISTI




Vorrei partire da una riflessione di carattere storico sul ruolo delle migrazioni internazionali nella storia europea.
Appena un secolo fa, l'Europa era, a livello mondiale, il continente da cui proveniva la grande maggioranza degli immigrati. Questo perché si trattava di un continente già piuttosto affollato e, soprattutto, di un continente povero. Non però così povero da non permettere a milioni di persone di raggranellare cento lire (ricordate la canzone "Mamma mia, dammi cento lire, che in America voglio andar!") per varcare l'oceano, magari da clandestini.
Nel secolo scorso e al principio di questo, migliaia di tedeschi e di inglesi prima, di polacchi, irlandesi, italiani, spagnoli e greci poi, partivano ogni giorno, per gli Stati Uniti, l'Australia, l'Argentina, solo per citarne le destinazioni maggiori.
E di questo gigantesco esodo - che tra l'altro ha contribuito in misura determinante al decollo dei paesi come gli Stati Uniti e alla stessa crescita europea - gli italiani rappresentavano la componente principale. I nostri bisnonni e i nostri nonni sono stati protagonisti di uno dei più grandi esodi spontanei della storia moderna ("spontaneo" si fa per dire!). Ma è per distinguerlo da altri esodi di massa della nostra storia recente, che certo spontanei non sono stati, come quello di una parte degli ebrei tedeschi e orientali negli anni Trenta, la parte che attraverso l'asilo politico ottenuto oltreoceano è sfuggita al massacro. Pensate che, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, quasi un milione di persone lasciava questo paese ogni anno, per cercare fortuna altrove.
Anche se questo non cancella la complessità e la specificità dei problemi attuali, penso che sia un dato da tenere presente, sul piano culturale, per affrontare l'intera problematica.
Oggi, naturalmente, lo scenario è radicalmente diverso, per molti aspetti addirittura opposto. L'Europa, anche grazie al sacrificio dei suoi emigranti - che oggi sono "italiani all'estero" (o "oriundi", come si diceva una volta) - è cresciuta diventando prima la massima potenza mondiale, per poi dilaniarsi in due conflitti mondiali (che però erano innanzitutto - non dimentichiamolo - guerre europee), che ne hanno cancellato per sempre la supremazia globale.
Oggi il nostro continente è un gigante potenziale, che però è ancora troppo debole e disunito per dispiegare tutte le sue potenzialità. Fatichiamo a trovare una voce comune in politica estera, mentre con l'Unione monetaria stiamo costruendo un braccio monetario comune, pagando però prezzi elevati - perlomeno a breve termine - in termini di sviluppo e di occupazione.
Questo fragile gigante, come possiamo definire l'Europa, si è risollevato dalle macerie della seconda guerra, e ha vissuto il boom della ricostruzione, ricorrendo in misura massiccia al lavoro degli immigrati.
In parte si è trattato di migrazioni interne: Europei del sud, e di nuovo una maggioranza di italiani tra questi, partiti per lavorare alle catene di montaggio e nelle miniere francesi, belghe, tedesche, etc.
In parte si è trattato invece di migrazioni internazionali: dalle ex-colonie verso la madrepatria, seguendo il tragitto inverso dei coloni europei che partivano per l'Africa un secolo prima. Gli algerini in Francia, i turchi in Germania, i marocchini in Belgio, gli indiani e i pakistani in Inghilterra, per ricordare solo le correnti più massicce.
L'Italia non ha conosciuto questo fenomeno - le grandi migrazioni internazionali del boom industriale - semplicemente perché i lavoratori immigrati li aveva in casa: prima i contadini veneti e i pastori abruzzesi, che scendevano a Roma e nelle grandi città del nord, poi i braccianti campani, siciliani, pugliesi, calabresi, etc. che andavano a fare gli operai a Milano o a Torino.
Le dimensioni del fenomeno sono simili e in parte simili sono i problemi che ha posto: reazioni razziste, carenze alloggiative, etc. Certo, alcune difficoltà specifiche che si riscontrano oggi, con l'immigrazione extra-comunitaria mancavano: le differenze culturali e linguistiche erano meno accentuate, non si aveva a che fare con Stati stranieri, soprattutto era un'immigrazione voluta e apertamente incoraggiata dal sistema economico e, in particolare, dalla grande impresa. Oggi non è più così!
Nei primi anni Settanta, in occasione della grave crisi innescata dal drastico aumento dei prezzi del petrolio, gli Stati europei di più vecchia immigrazione come la Francia, la Germania, l'Olanda o il Belgio hanno chiuso le loro frontiere a nuovi ingressi per lavoro. L'immigrazione non si è fermata per questo, ma ha cambiato natura: l'immigrazione regolare di lavoratori è diventata minoritaria, mentre è aumentata quella mossa da ragioni famigliari e politiche, nonché quella clandestina e quella "irregolare", composta da "finti turisti" e comunque da persone che entrano regolarmente per un periodo breve e si trattengono poi più a lungo.
Queste sono le caratteristiche dell'immigrazione attuale, dell'immigrazione che potremmo definire "post-industriale". E queste sono le caratteristiche dell'immigrazione che conosciamo in Italia a partire dai primi anni Ottanta: assenza di una domanda economica esplicita e aggregata, grande varietà di provenienze geografiche, tasso relativamente alto di clandestinità e di irregolarità, coesistenza di motivazioni di natura diversa (economica, politica, famigliare, etc.) alla base dell'emigrazione.


Il cambiamento profondo della composizione e delle caratteristiche dei flussi migratori che interessano l'Europa a partire dagli anni Ottanta cambia radicalmente i termini del problema di base della politica migratoria.
Mentre nella fase di massima espansione industriale, l'immigrazione rappresentava un obiettivo specifico dell'azione dello Stato, che agiva con politiche migratorie attive, per sostenere una crescita improntata a modelli fordisti, nella fase attuale le migrazioni rappresentano un vincolo esterno per l'azione degli Stati, da valorizzare, da razionalizzare o da eliminare, a seconda della prospettiva politica, dell'intelligenza storica e della sensibilità umana di chi ne tratta.
A questo proposito, è però necessaria una precisazione. Descrivere le migrazioni internazionali come un vincolo rispetto all'attività politica, non equivale ad escludere che tali migrazioni possano rivestire un'utilità economica, o addirittura che risultino necessarie per la sopravvivenza di interi settori dell'economia (in Italia, o almeno in alcune zone, è ormai così, per esempio, per il lavoro domestico, per certi lavori di cura, per la pesca, per la pastorizia, per il lavoro agricolo stagionale, per certe mansioni nel settore dell'allevamento, etc.). Anche questo è un aspetto che bisogna tenere presente per avere una visione realistica dei problemi.
Al cambiamento del significato politico delle migrazioni internazionali (da obiettivo a vincolo), si è accompagnato un cambiamento radicale nella strategia reciproca adottata dagli Stati europei in merito alla gestione del fenomeno.
Fino a metà degli anni ‘70 circa, la strategia era essenzialmente competitiva: nel periodo espansivo, si era trattato di una competizione per accaparrarsi gli immigrati migliori attraverso la firma di accordi bilaterali di importazione di manodopera con i principali paesi esportatori; nel periodo successivo - che possiamo grosso modo identificare con il decennio 1974-1985 - si è invece trattato di una competizione finalizzata a proteggere il proprio territorio da nuove ondate di immigrazione economica, anche a scapito degli Stati vicini.
L'approccio competitivo degli Stati europei alla gestione dei flussi si rifletteva anche sulle istituzioni comunitarie e sulla loro competenza in materia. I tentativi fatti in quel periodo dalla Commissione europea di affermare una competenza comunitaria, perlomeno nel promuovere una concertazione sistematica tra Stati membri nel campo delle politiche migratorie, sono stati fortemente osteggiati da diversi Stati importanti e non hanno, di fatto, prodotto alcun risultato di rilievo.
Ma, a partire dalla metà degli anni ‘80 circa, l'approccio dominante si è invertito e si è passati ad una strategia sostanzialmente cooperativa. Due fattori, in particolare, hanno contribuito a questa fondamentale trasformazione:
a) da un lato ci si è resi conto che le cosiddette "politiche di stop" condotte su scala nazionale avevano avuto risultati scarsissimi in termini quantitativi: anzi, in diversi paesi (come, ad esempio, in Francia), si è constatato un "effetto perverso" di tali politiche, che paradossalmente hanno indotto la stabilizzazione - attraverso l'ondata dei ricongiungimenti famigliari - di una presenza immigrata che in precedenza aveva ancora caratteri provvisori e viveva secondo modelli di "pendolarismo migratorio";
b) il secondo fattore del cambiamento di strategia è coinciso con la crescente consapevolezza del fatto che le politiche migratorie restrittive condotte su scala nazionale entravano in conflitto con la logica dell'integrazione europea e, in particolare, con l'instaurazione del mercato comune, in quanto obbligavano i singoli Stati a mantenere la centralità politica delle frontiere.
Per entrambe queste ragioni, a metà degli anni ‘80, si fa strada l'idea che sia necessario cooperare, se si vuole migliorare l'efficacia dei controlli alle frontiere, senza però rinunciare all'obiettivo di un'integrazione sempre più spinta a livello europeo.


Il primo risultato tangibile e importante di questa nuova strategia cooperativa degli Stati europei nel campo della politica migratoria è senza dubbio rappresentato dagli accordi di Schengen. Con questa locuzione si indica un articolato insieme di trattati internazionali, che comprende essenzialmente:
- l'Accordo propriamente detto, del 1985;
- la Convenzione di applicazione del 1990;
- i vari atti di adesione degli Stati che si sono aggiunti progressivamente al nucleo originario dei contraenti;
- un numero considerevole di atti esecutivi, deliberati nel corso degli anni dagli organi Schengen, dal Comitato esecutivo in particolare.
Gli accordi di Schengen rappresentano una tappa decisiva sulla strada della cooperazione europea in materia di politica migratoria (e non solo di politica migratoria, poiché il contenuto degli accordi è molto eterogeneo e tocca argomenti diversi che vanno dalla lotta al traffico di stupefacenti al possesso di armi, dall'estradizione alla cooperazione tra polizie nazionali). Ma bisogna precisare che si tratta di una forma di cooperazione particolare, che si può definire come difensiva, quanto agli obiettivi, e come rigorosamente intergovernativa, quanto al metodo.
La "filosofia" fondamentale che regge gli accordi di Schengen, infatti, è - in sintesi - questa: per procedere nell'integrazione, creando un autentico spazio europeo di libera circolazione, in cui i controlli alle frontiere siano soppressi anche per le persone fisiche e non solo per i capitali, occorre adottare "misure di compensazione", che in qualche modo sopperiscano all'abolizione di quella rete di controlli e garantiscano che il livello complessivo di sicurezza risultante sia immutato se non accresciuto. La logica, insomma, è essenzialmente difensiva: si agisce "a valle", cercando di migliorare i controlli e di rendere più efficaci i meccanismi repressivi, ma non si affronta il problema a livello delle cause, cercando di attenuare e canalizzare la pressione migratoria all'origine.
La sicurezza, più della libertà di circolazione, appare come il vero obiettivo perseguito dagli accordi di Schengen. E questa sicurezza è intesa in modo globale, come protezione da ogni minaccia alla legalità e alla stabilità sociale ed economica. E quindi nella trama complessa degli accordi di Schengen si ritrovano fuse, e talvolta confuse, disposizioni in materia di armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne, norme comuni in materia di condizione degli stranieri, indirizzi omogenei in materia di lotta agli stupefacenti e di possesso d'armi, regole finalizzate a migliorare il coordinamento tra le polizie nazionali sul terreno della lotta alla criminalità organizzata. è inoltre prevista - come sapete - la creazione di un sistema informativo integrato (denominato SIS: Sistema di Informazione Schengen), che permette agli Stati contraenti di scambiarsi in tempo reale informazioni e richieste d'intervento nei confronti di migranti irregolari come di criminali internazionali, di persone scomparse come di auto rubate.
Oltre a questo carattere spiccatamente difensivo, gli accordi di Schengen si caratterizzano per la loro rigorosa collocazione in un quadro intergovernativo.
Tali accordi sono nati infatti in un ambito del tutto autonomo da quello istituzionale dell'Unione Europea, anche se - fin dal principio - gli Stati contraenti si sono preoccupati di mantenere aperti i canali di comunicazione con le istituzioni comunitarie. La Commissione è stata invitata a partecipare, in qualità di osservatore, alle riunioni del Comitato esecutivo; dal punto di vista normativo, inoltre, il "Sistema Schengen" si fonda su una rigorosa clausola che esclude l'applicabilità della normativa Schengen qualora essa si ponga in contrasto con il diritto comunitario (Art. 134 Conv. Applicazione).
Insomma, pur se rigorosamente intergovernativa, la cooperazione condotta in ambito Schengen ha rappresentato, in qualche modo, un esperimento "autorizzato" dalle istituzioni comunitarie, in particolare dal Consiglio e dalla Commissione. Più critica è stata la posizione del Parlamento europeo, e si capisce il perché visto che il processo decisionale Schengen lascia pochissimo spazio per un controllo democratico effettivo, sia a livello europeo sia a livello di parlamenti nazionali.


A questo punto, mi si consenta di fare un breve inciso sul ruolo del Comitato bicamerale che ho il compito di presiedere, che dovrebbe appunto contribuire a colmare il deficit democratico che rischia di viziare il sistema Schengen.
La legge di ratifica degli accordi di Schengen (legge 30 settembre 1993 n. 388) ha previsto, accanto alle disposizioni immediatamente attuative dei due trattati, l'istituzione di un Comitato parlamentare incaricato di "esaminare l'attuazione ed il funzionamento della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen" (art. 18). Si tratta di un organo bicamerale composto - come saprete - da dieci deputati e da dieci senatori nominati, rispettivamente, dal Presidente del Senato della Repubblica e dal Presidente della Camera dei Deputati in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari.
A norma dell'articolo 18, 4° comma, il Comitato esamina i progetti di decisione, vincolanti per l'Italia, pendenti innanzi al Comitato esecutivo contemplato dal titolo VII della Convenzione di applicazione. A tal fine, per il tramite del rappresentante italiano, che può chiedere il rinvio della decisione ex articolo 132 della stessa Convenzione, il Comitato ha il potere di esaminare il progetto di decisione e di esprimere, entro quindici giorni dalla data di ricezione, un parere di carattere vincolante.
Tali attribuzioni consentono pertanto al Parlamento di intervenire, oltre che con una funzione di controllo, con una penetrante funzione di indirizzo politico nei processi decisionali di Schengen che riguardino espressamente l'Italia, favorendo inoltre un controllo specifico sull'operato del Governo in sede di Comitato esecutivo.
Non si può non sottolineare la peculiarità della funzione consultiva attribuita al Comitato parlamentare: la legge parla espressamente di un "parere vincolante" introducendo così, un elemento di novità nel raccordo Parlamento - Governo. La vincolarità del parere induce a riconoscere infatti una funzione di codecisione al Comitato parlamentare nel processo di attuazione della Convenzione di Schengen per i progetti relativi all'Italia. Tale ruolo sostanziale riconosciuto all'organo parlamentare non deve però essere interpretato come un limite posto alla libertà del Governo all'atto della negoziazione in sede di Comitato esecutivo. Al contrario la vincolarità della decisione parlamentare rafforza la posizione dell'Esecutivo che, al tavolo dei negoziati, potrà far valere il sostegno parlamentare irrobustendo, pertanto, la posizione dell'Italia.
Si tratta di un raccordo particolare che, pur se si discosta dalla tradizionale impostazione del rapporto tra Parlamento ed Esecutivo che di norma configura il controllo politico in via successiva e non preventiva e comunque non di carattere vincolante, si giustifica alla luce della natura costituzionale dei principi su cui incide l'Accordo di Schengen, principi tutti racchiusi nella prima parte della Costituzione, che il processo di revisione costituzionale non mette in discussione.
Si tratta, dunque, di operare nel contesto internazionale su temi che non concernono soltanto interessi nazionali contingenti, ma che coinvolgono grandi questioni di principio e di tutela a garanzia anche del singolo individuo. Poiché i diritti inviolabili sono coessenziali rispetto alla forma di Stato vigente, l'intervento vincolante dell'organo parlamentare, cioè di un soggetto costituzionale che ha carattere, attribuzioni e capacità rappresentative diverse da quelle del Governo, si pone non solo a garanzia di tale coessenzialità, ma appare più idoneo ad effettuare quel bilanciamento di interessi che si richiede quando si incide su diritti fondamentali. Il Comitato è chiamato pertanto a verificare se a fondamento di eventuali norme limitative dei diritti in questione vi siano altri interessi costituzionalmente meritevoli di tutela in modo da assicurare la "ragionevolezza" della decisione.
In questi mesi, il Comitato parlamentare di controllo italiano ha operato con gradualità, innanzitutto al fine di dotarsi di un bagaglio di conoscenze adeguato su una materia indubbiamente complessa; in secondo luogo, per mettere in pratica queste conoscenze, esercitando i poteri di controllo e di indirizzo sull'azione del Governo in ambito Schengen, che la legge gli attribuisce.
Gli strumenti utilizzati dal Comitato per assolvere al proprio ruolo istituzionale sono stati essenzialmente tre:
a) audizioni di esperti e membri del governo, che hanno rappresentato sia un canale di acquisizione di informazioni, sia un'occasione per trasmettere al Governo punti di vista e orientamenti generali del Parlamento nelle materie "coperte" dagli accordi Schengen;
b) sopralluoghi svolti da parte dei parlamentari membri del Comitato in posti di frontiera e zone di confine italiane, nonché nelle sedi del segretariato Schengen a Bruxelles, del Central-SIS a Strasburgo e del National-SIS a Roma, per verificare di persona lo stato di attuazione della Convenzione e toccare con mano gli eventuali problemi.
I risultati delle audizioni e dei sopralluoghi svolti dal Comitato sono stati esposti in un documento pubblicato nel mese di ottobre 1997. Un secondo documento, che darà conto dell'attività svolta dopo quella data, verrà predisposto in primavera;
c) il terzo strumento dell'azione del Comitato è rappresentato dai pareri inviati al Governo italiano in merito ai progetti di decisione posti all'ordine delle sedute del Comitato esecutivo, secondo quanto previsto dalla legge di ratifica italiana, a cui ho fatto riferimento poco fa.
L'azione di controllo e di indirizzo, che culmina nell'espressione dei suddetti pareri, è stata svolta dal Comitato con misura e ponderazione; o, perlomeno, questo è stato lo spirito con cui abbiamo operato.
Consapevoli della delicatezza della fase attuale di partecipazione dell'Italia al progetto delineato negli accordi di Schengen, l'organismo di controllo ha voluto adottare un atteggiamento costruttivo, cercando di contribuire alla individuazione degli adeguamenti tecnici ancora necessari, evitando contrapposizioni inutili e concentrando l'attenzione critica sugli aspetti di maggiore rilevanza politica e costituzionale.
Credo, anche se non spetta a me dare un giudizio, che il bilancio complessivo di questo primo periodo di attività sia positivo, se non altro perché l'esistenza di un organismo parlamentare ad hoc incaricato di vegliare sull'attuazione degli accordi ha contribuito ad approfondire la conoscenza del Sistema Schengen, sia all'interno della classe politica e dell'amministrazione pubblica, sia in seno all'opinione pubblica. E sono convinti che questo ruolo di approfondimento e di sensibilizzazione rientri tra i compiti del Comitato parlamentare, e rivesta una grande importanza, anche se non è espressamente contemplato nel testo della legge istitutiva.
Concludo questa prima parte del mio intervento, dicendo due parole sul futuro di questo organismo.
E' evidente che, quando l'obiettivo di "incorporazione" di Schengen nell'ambito dell'Unione europea, fissato nel trattato di Amsterdam sarà completato, un organismo di controllo ad hoc su quella che non sarà più che una parte dell'edificio istituzionale e normativo europeo, non avrà più ragione di esistere.
Ma, fino ad allora - anzi, in modo particolare, nella fase di transizione - il Comitato di controllo, così come tutti gli organismi analoghi o investiti delle stesse funzioni negli altri paesi contraenti, ha un ruolo importante.
Io voglio davvero limitarmi a richiamarne l'importanza, sottolineando che l'efficacia di questo controllo parlamentare potrebbe risultare assai rafforzata mediante un coordinamento effettivo tra i vari parlamenti nazionali su questo punto, per esempio attraverso l'istituzione di un gruppo di concertazione permanente composto da rappresentanti delle Commissioni competenti dei Parlamenti interessati, secondo quanto suggerito dal Parlamento europeo in una recente ed importante risoluzione (A4-0014/97)


Ho accennato al trattato di Amsterdam e alle novità che comporta in questo campo. Si tratta di un aspetto decisivo, a cui voglio dedicare la parte finale del mio intervento.
Com'è noto, il Consiglio europeo riunito ad Amsterdam il 16 e il 17 giugno 1997 ha approvato un progetto di Trattato, su cui le firme definitive sono state apposte il successivo 2 ottobre, sempre ad Amsterdam. Tra i numerosi cambiamenti implicati dal Trattato di Amsterdam - che contiene una riforma complessiva dell'organizzazione e del funzionamento delle istituzioni europee - vi è una riforma radicale della politica migratoria. Le linee-guida di questa riforma sono essenzialmente due:
- in primo luogo, è stata decisa la "comunitarizzazione", graduale e parziale, della politica migratoria. Questo significa che quasi tutti i temi che compongono la politica migratoria di un paese - con l'eccezione importante delle politiche di integrazione rivolte agli immigrati stabili - verranno progressivamente attribuiti alla competenza delle istituzioni comunitarie. Con riferimento all'architettura complessiva dell'Unione Europea, si può dire che le politiche migratorie vengono spostate dal Terzo al Primo pilastro;
- in secondo luogo, ad Amsterdam, è stata decisa - tramite un protocollo allegato al progetto di Trattato - l'incorporazione dell'acquis di Schengen nell'ambito dell'Unione Europea. Ciò significa che tutto il complesso insieme normativo composto dall'Accordo, dalla Convenzione, dai successivi atti di adesione e dagli atti applicativi viene "salvato" e "convertito" in normativa europea. La disciplina Schengen diventa così il primo nucleo, la "spina dorsale" della politica migratoria europea.
Le cause di questa duplice decisione (comunitarizzazione + incorporazione di Schengen) sono diverse. Innanzitutto, ha pesato la consapevolezza dell'inefficienza del metodo intergovernativo nel fronteggiare un fenomeno la cui portata è destinata ad accrescersi. Caratteristica del metodo intergovernativo è infatti la sottoposizione di qualsiasi decisione alla regola dell'unanimità. Questo comporta inevitabilmente rallentamenti e frequenti paralisi del processo decisionale. In ambito intergovernativo, inoltre, manca qualsiasi istanza giurisdizionale superiore, capace di dirimere eventuali controversie tra Stati contraenti. Di conseguenza, le eventuali divergenze di interessi tra Stati su singole questioni tendono a sclerotizzarsi, innescando situazioni conflittuali e facendo deragliare il processo di cooperazione. La comunitarizzazione, sebbene non comporti un superamento immediato e generalizzato dell'unanimità, costituisce un rimedio concreto a queste difficoltà.
Ma la scelta della comunitarizzazione non è solo il frutto di una ricerca di efficienza, bensì anche di legittimità. Negli ultimi anni, infatti, le gravi carenze democratiche del Sistema Schengen, e più in generale dei meccanismi di "supplenza intergovernativa" in materie riconducibili alla sfera d'azione dell'Unione Europea, hanno dato luogo a critiche sempre più pressanti da parte dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e, più velatamente, della Commissione. Ma, soprattutto, ha pesato la diffusione, nell'opinione pubblica di alcuni grandi paesi europei (non in quella italiana, male informata e distratta), di una insoddisfazione crescente verso il modo - riduttivo e poco trasparente - in cui si andava realizzando lo "spazio senza frontiere interne" in Europa.


Il progetto di una Politica migratoria comune (PoMC) a livello europeo nasce, come abbiamo detto, da esigenze di efficienza e di democraticità. Gli effetti concreti di questa futura politica comunitaria, a livello di Unione e a livello di singoli paesi, dipenderanno dagli indirizzi politici concreti che prevarranno nell'elaborazione della PoMC. Si possono delineare due scenari alternativi. Se prevalesse una impostazione "minimalista", la PoMC si ridurrebbe a un'opera di razionalizzazione, volta a minimizzare i "costi" e a massimizzare i risultati quantitativi delle politiche nazionali di lotta all'immigrazione clandestina.
Ma la PoMC potrebbe anche essere qualcosa di diverso e qualcosa di più. Se si affermasse, a livello comunitario, una visione integrata del fenomeno migratorio, la politica relativa si dovrebbe necessariamente coordinare con altre politiche settoriali comuni, dalla nascente politica occupazionale comune alla politica di sicurezza interna, dalla politica di cooperazione allo sviluppo alla politica estera comune. La PoMC diventerebbe, in tal caso, una componente tra le più importanti di una vera e propria strategia di stabilizzazione e sviluppo comune dell'Europa, nei confronti delle aree meno sviluppate circostanti (e non solo).
Alcuni segnali (dalla costituzione di un Partenariato euro-mediterraneo, all'andamento dei lavori per la riforma degli accordi di Lomè per la cooperazione con i paesi ACP) lasciano sperare che l'opzione meno riduttiva possa prevalere. Ovviamente, il risultato finale dipenderà da numerosi fattori e, in primo luogo, dall'orientamento dei governi nazionali.
L'orientamento dei singoli governi in merito all'obiettivo di una politica migratoria comune non è omogeneo. Ci sono paesi favorevoli, come (almeno in linea di principio) la Germania e l'Italia. Ci sono paesi riluttanti, e in ogni caso contrari ad una PoMC di alto profilo, tra cui spiccano i paesi meno esposti al cosiddetto rischio migratorio (il Regno Unito, ovviamente, ma anche l'Irlanda e la Danimarca).
L'esito di questa partita, che sta iniziando adesso ed è apertissima, interessa l'Italia molto da vicino. Il nostro paese, a causa della sua collocazione geografica - fortunata e delicata nel contempo - non può rimanere indifferente né neutrale rispetto al dibattito europeo sul futuro della politica migratoria.
Per l'Italia è essenziale - come dimostra l'emergenza curda di inizio 1998 - che il progetto di mettere a punto una politica comune in materia migratoria non rimanga lettera morta, e che tale politica sia incisiva e ad ampio raggio, per evitare di fungere da "parafulmine" migratorio o da "Stato-cuscinetto" per il resto dell'Unione.
Ma è anche interesse dell'Italia concorrere attivamente all'elaborazione di questa politica comune, per evitare che essa risulti troppo rigida e, di conseguenza, insostenibile per un paese "esposto" come l'Italia, e legato come l'Italia da profonde interdipendenze con importanti paesi di emigrazione (si pensi alla nostra forte dipendenza energetica con l'Algeria).
Alcuni segnali incoraggianti ci sono. Segnali di un livello di consapevolezza assai più elevato che in passato rispetto alla dimensione e alla complessità dei problemi che abbiamo di fronte. Segnali che si traducono in un'azione di governo dei flussi migratori più convincente e incisiva.
Penso, per esempio, al modo in cui è stata gestita l'emergenza curda di fine 1997 - inizio 1998, con l'organizzazione, qui a Roma, di un vertice dei capi delle polizie europee interessate dal fenomeno (più la polizia turca), e seguito all'inizio di febbraio da una riunione tecnica (in cui il numero dei partecipanti è accresciuto ulteriormente). Come ha illustrato recentemente il capo della polizia, prefetto Masone, in un'audizione di fronte al Comitato parlamentare Schengen, si è trattato di incontri molto produttivi, che preparano un salto di qualità nella cooperazione tra le polizie europee, e in cui l'Italia ha svolto un ruolo trainante.
Credo che sia questa la strada da percorrere, ciascuno con il ruolo e con gli strumenti che gli competono, tutti con la stessa determinazione e con lo stesso equilibrio. Grazie.


(*) Conferenza tenuta dall'On. Fabio Evangelisti, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull'applicazione e sul funzionamento della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, presso la Scuola di Addestramento del SISDe - Roma, 18 febbraio 1998.
In data successiva sono stati approvati in tema di immigrazione i seguenti provvedimenti:
- legge del 6-3-1998, n. 40, recante "Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero";
- decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri in data 22-7-1998 recante il testo unico sull'immigrazione;
- documento programmatico sulle politiche immigratorie ex art. 3 legge 40/98 approvato dal Consiglio dei Ministri in data 31-7-1998.

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